di VINCENZO IMPERATI
Era un sabato
pomeriggio, a Positano il tempo andava migliorando ma oramai iniziava a levarsi
nell'aria quella tipica brezza fresca, che di certo non avrebbe garantito una
calda serata; così mi accorsi di due cose: avevo dimenticato il soprabito in albergo;
e dopo un'occhiata nel taschino, aimè ero anche in ritardo.
Ero arrivato ormai,
mi toccò solo salire una rampa di scale per raggiungere il posto indicato sul
volantino. Sbadatamente lasciai sbattere la porta alle miei spalle: ero
entrato, e ad accogliermi vi era un'anziana signora seduta comodamente
dall'altro lato di uno scrittoio. Aveva uno sguardo assente, come se non
volesse stare lì in quel momento, mio sembrava perciò quasi triste; magari mi
sbagliavo, si era solo distratta un momento. Comunque mi rivolse solo un debole
sorriso e mi fece segno con l'indice. Seguii la direzione da lei indicata e
scostai leggermente la porta socchiusa dalla quale sbucava della luce.
Varcai impaziente la
porta: la stanza che mi si presentò non era tanto grande come credevo,
rimpicciolita a sua volta da un gran finestrone infondo a tutto, troppo stretta
e lunga per i miei gusti e purtroppo per me gremita di persone. Restai lì
immobile per un momento a pensare quanto mi sarebbe piaciuto osservarla priva
di vita in quel complesso statuario di sedute bianche, sospesa in un assoluto
silenzio.
Mi diressi infondo
alla sala sfiorando la candida ma ruvida parete bianca. Cercai di far silenzio
ma, involontariamente, giocai con la pazienza di qualche signore che mi rispose
con un'occhiataccia. Non so per quale motivo proseguii e superai l'uscio del
finestrone e mi sedetti su una gracile sedia di plastica ormai cotta dal sole.
Quella sera la
piccola sala era un modesto teatro di esibizioni. Si esibivano poeti. Magri,
grossi, giovani e anziani, accompagnati da qualcuno o soli, tutti possessori
però tra le loro mani di un foglio: padrone conservatore delle loro parole
accuratamente scelte e messe in ordine.
Io ero troppo stanco
e decisi di rilassarmi su quella sedia, ad ammirare l'inchino del sole ormai
stanco affogato dal mare di nuvole per tutta la giornata senza mai aver avuto
la possibilità di salire a galla per poter respirare e farci un saluto in
quella giornata nuvolosa.
In un secondo
momento volli alzarmi per godere a pieno quell'insieme melodico di suoni
provenienti dalla sala che trasformavano quelle preziose parole stampate in
sinfonie e i loro autori in veri cantanti. Mi affacciai così all'interno, e il
mio volto, ormai fin troppo accarezzato dal fresco della sera, provò sollievo
in quell'aria di stanza riscaldata. Da lì osservai alcuni dei personaggi in
sala, quelli che attiravano più la mia attenzione e risaltavano più ai miei
occhi. Dalla parete opposta dove mi trovavo io, vi erano cinque sedie, ma solo
tre erano occupate da altrettante signore di mezza età. Non mi chiesi se
mancasse qualcuno, osservai soltanto ciò che i miei occhi vedevano. Una di loro
era intenta a dirigere quel coro muto di poeti seduti al loro posto,
chiamandoli uno alla volta, facendoli esibire in singolo. Le altre due sedute
accanto, portavano entrambe gli occhiali, e a ogni esibizione poetica si
scambiavano velocemente ma silenziosamente qualche giudizio o impressione;
senza distrarre il pubblico, incantato dal poeta di turno in piedi dietro al leggio.
Tra le prime file vi
era seduto un fotografo. Anche lui catturò il mio sguardo e distrasse la mia
mente dall'ascolto delle poesie. Da quel che riuscivo a vedere era un signore
anziano, un po' gobbo per via della spalla destra costantemente alzata alla
ricerca della testa per incastrare la macchina fotografica tra le due membra.
Indossava una camicia chiara, della quale riuscivo a scorgere solo il colletto,
sopra di essa posava scomposta una vecchia giacca scura e logora. L'apparenza
però mi aveva ingannato. La sua personalità era ben diversa da come me l'ero
figurata e quindi cambiai radicalmente la mia descrizione attenta su di lui:
come prima mi era sembrato rilassato, bonario e vagante come me tra i suoi
pensieri, adesso mi appariva frenetico e agile e più veloce del tempo che
passava incessantemente. I suoi scatti erano rapidi e con movimenti frenetici
controllava ogni foto precedentemente scattata per segnare quella perfetta.
Quasi all'improvviso
mi scostai dai miei pensieri, subito dopo sentii scandire dalla direttrice del
metaforico coro il prossimo poeta. Da quel momento con i miei occhi guardai
solamente il via vai dei poeti che uno alla volta recitavano le proprie poesie
e tornavano al posto; con le miei orecchie riuscii a cogliere qualsiasi emozione
uscente dalle loro parole, riuscii a memorizzarle temporaneamente per gustare
ancora qualche secondo in più quelle emozioni.
Le poesie erano
tutte bellissime e ognuna di esse mi cullava in un sogno, mi portava lontano,
mi faceva ridere, piangere, mi faceva vivere la cruda realtà o la bellissima
storia di una favola. Facevano tutte riflettere quelle poche o molte parole
scritte in versi, permettevano a tutti noi di capire l'autore, capire qualcosa
della sua vita, e anche qualcosa della nostra vita che non avevamo compreso a
pieno. Le parole erano magiche quel giorno, permettevano a tutti noi di poter
viaggiare dappertutto, erano barche in un porto, aerei su una pista. Ci
avrebbero potuto portare dappertutto… I poeti ormai cantanti, si erano
trasformati in maghi, potevano tutto loro, erano possessori di qualcosa di inestimabile,
solo il potere delle parole scritte su un foglio poteva racchiudere tutti i
loro pensieri e il mare infinito di emozioni che erano capaci di trasmettere a
tutti coloro che erano in ascolto.
Quella stanza non
era più piccola e stretta, quella stanza era infinita se c'era solo un poeta,
immaginatene quaranta.
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